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I miei racconti fantasy

Il soffio del vento

“Il soffio del vento” fu l’inizio di tutto. Tre anni fa la mia prof. di Italiano ci assegnò come compito da scrivere un racconto del mistero. Il mio, cioè il seguente, piacque tantissimo e da lì nacque l’idea di questo blog dove condividere la mia passione per la scrittura.

Buona lettura!

Fin da quando ero giovane amavo sciare. Amavo guardare il mondo dalla vetta di una montagna e… via giù per la pista alla velocità del vento, quasi prendessi il volo.

Vivevo in un paesello tra le montagne, dove ero nato e cresciuto. Ero un grande sciatore, come mio babbo e mio nonno prima di me. Buon sangue non mente! Avevo la camera tappezzata di medaglie e premi. A ogni gara stabilivo nuovi record. In città tutti mi chiamavano “la Scia”, perché mi piaceva sciare di notte e così, per illuminare la pista, attaccavo con lo scotch due torce alle bacchette e quando vedevi una lucina che scendeva giù veloce lungo la montagna, intuivi subito che ero io. L’unico record che non sono mai riuscito a battere è quello di “Fuori pista al buio”. Ogni volta che vincevo una gara o un premio, la gente della città mi diceva:

“Congratulazioni Marco! Sei stato bravissimo! Ma ancora non sei riuscito a battere la vecchia ragazzina nel fuori pista. Non ce la farai mai”; perciò vivevo sotto l’ombra del record di questa ragazzina di cui nessuno sapeva niente.

Un giorno chiesi a mio nonno, visto che lui era vissuto in quel paese fin da quando era nato, se conosceva la vecchia ragazzina di cui tanto parlava la gente, ma di cui nessuno sapeva dirmi nulla. Il nonno mi guardò prima con aria perplessa, come se non avesse capito la mia domanda, poi mi disse con il suo vocione calmo e gentile:
“Vedi Marco, tanto tempo fa, quando io avevo la tua età, c’era una ragazza che sciava meglio di chiunque altro. A volte gli sciatori più esperti venivano nel nostro paese per sfidarla, ma nessuno riusciva a batterla. Volava giù lungo la pista come se fosse vento. Molte società le avevano proposto di gareggiare per loro, ma lei aveva sempre rifiutato, perché non le interessavano i soldi, ma solo vivere la sua passione. Lei, come te, amava sciare di notte, quando le piste erano libere. Una sera venne giù una forte nevicata e questa ragazza era a sciare…” tutto a un tratto mio nonno smise di raccontare. I suoi grandi occhi grigio chiari stavano osservando un punto nel vuoto, come se fossero incantati. All’improvviso si risvegliò dai suoi pensieri: “Eh, dove ero rimasto? Ah, sì! La mattina dopo non si ebbe più notizie di lei. Si pensò che una valanga di neve l’avesse travolta. Tutto il paese contribuì alle ricerche, ma dopo un paio di settimane decidemmo di smettere, perché avevamo setacciato l’intera zona senza aver trovato traccia della ragazza. Pian piano, col passare degli anni, la gente iniziò a dimenticare quella ragazzina e ora il suo ricordo continua a vivere soltanto nei suoi record.”

Io, che ero molto incuriosito dalla storia, chiesi al nonno:
“ Nonno, ma nessuno sa cosa le è successo?” e lui, annuendo, mi rispose:

“Nessuno. Bene, ora, se non ti dispiace, devo andare a farmi una bella tazza di tè caldo” e detto ciò si alzò con molta fatica, dati i suoi tanti anni, e si diresse in cucina. Decisi di prendere gli sci e uscii di casa per schiarirmi un po’ le idee.

Mentre ero sulla vetta della montagna, alzai lo sguardo verso il cielo, che quella sera era illuminato dalla luna piena, e vidi una stella cadente. Subito chiusi gli occhi ed espressi un desiderio. Tirò una folata di vento e partii. Il vento mi fischiava dentro le orecchie e a un tratto sentii una ragazza urlare di felicità: “Uihhh! Si vola!” e qualcosa mi sfiorò. All’improvviso le grida si trasformarono in un urlo di paura: “Aiuto! Qualcuno mi aiuti” che vennero sormontate dal ringhiare e ululare di un lupo e… Bumm! Mi ritrovai a terra, sepolto per metà dalla neve e con un grande dolore al braccio destro e un forte mal di testa. Sentivo le grida di disperazione di una ragazza nella mia testa, come un eco, come un martello che mi volesse spaccare il cranio dal dolore. Sentii una mano calda appoggiarsi sul mio petto e mi svegliai. Era ancora notte, la luna sorgeva alta sopra di me e illuminava il volto di una giovane. Aveva la pelle pallida, i capelli lunghi e neri. Indossava una tuta da sci di colore bianco che si confondeva con la neve. Ai piedi aveva degli scarponi trasandati dall’uso costante, mentre gli sci di legno erano lisci e perfetti, senza alcun difetto. Mi stava osservando e quando si accorse che ero sveglio sobbalzò. Incrociai i suoi occhi grigio chiari e notai una certa somiglianza tra lei e qualcuno che conoscevo; mi faceva troppo male la testa, però, per riconoscerlo.  

La ragazza mi travolse di domande:
“Ciao. Chi sei? Sei ferito? Cosa ci fai qui a quest’ora?”. Io, ancora scombussolato dal dolore, le risposi:

“ Mi chiamo Marco Sarghenti e…” sembrava incuriosita dal mio nome, come se le fosse familiare. “Vengo dal paesino che sta a valle. Volevo farmi una sciata notturna. Tu chi sei? Che cosa ci fai qui? Eri tu che urlavi?”. Prima di rispondere ci pensò su e alla fine mi disse:

“Anch’io sono originaria del paese da cui provieni. Ora la mia casa sono le montagne: vado d’ovunque mi porti la neve e il vento. Ti serve una mano, Marco?”

Nella mia testa i pensieri ruotavano come un tornado e non riuscivo ad avere un’idea chiara di chi fosse quella ragazzina. Mi volli dunque togliere i dubbi chiedendole nuovamente chi era.

Non ebbi alcuna risposta. Se ne stava lì ferma a osservarmi. Non volevo chiederle aiuto, perché, voglio dire, avevo una reputazione da difendere, e se in paese si fosse venuto a sapere che mi ero fatto aiutare da una ragazzina, mi avrebbero riso in faccia per tutta la vita. Ella allora partì e io rimasi lì tutto solo, immerso nella neve. Dopo poco mi pentii della mia scelta e, con molto imbarazzo, la chiamai:
“Ehi tu! Ragazza… del vento! Ci ho ripensato e mi servirebbe una mano!”. Mi misi ad ascoltare se arrivava e molto lontano sentii delle risate di scherno, poi tirò un’altra folata ed eccola lì davanti a me.

“Vedo che ci hai ripensato” mi disse con un sorriso stampato sulla faccia. Ero diventato tutto rosso per l’imbarazzo.
“Eh, già. Mi servirebbe proprio una mano. Mi puoi aiutare, per favore?”.

Annuì. Iniziò a tirare un vento fortissimo che si avvolse tutto intorno alla ragazza come un tornado di neve. Piano piano rallentò, ma senza smettere e vidi… un pupazzo di neve! Incredibile! Si era trasformata: ora al posto degli occhi grigi c’erano due sassolini; il nasino all’insù era diventato una carota e le mani si erano trasformate in legnetti. Sì, insomma, un normale pupazzo di neve. Mi correggo, non era normale. Il pupazzo-ragazza sollevò la neve e iniziò a farla ruotare in tondo, come per alimentare il tornado di prima. Solo che stavolta dentro c’ero anch’io!

Non riuscivo a vedere nulla, così chiusi gli occhi. Quando li riaprii, il tornado non c’era più e davanti a me c’era di nuovo la ragazza, con un aria da “non è successo nulla”. Non avevo più il braccio rotto ed ero in piedi con gli sci agganciati. Mi diede una spinta che mi fece volare giù per la pista come vento. Non vedevo niente, andavo solo a dritto. Mentre scendevo sentii la sua voce che mi diceva ridacchiando:
“Sta attento! Non posso mica venire tutte le volte a ripescarti tra la neve…Ih, ih, ih!”.

Quando persi velocità mi ritrovai sul sentiero che portava al paese. Era l’alba. Tornai a casa il più velocemente possibile. Quando entrai, trovai seduto sulla poltrona mio nonno che leggeva un giornale. Aveva un’aria calma. Non era preoccupato che io fossi tornato così tardi. Mi salì un dubbio. Gli chiesi:
“Nonno, tu conoscevi la ragazza?”. Mio nonno sospirò e mi rispose:
“Si, la conoscevo”.

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Un colpo al cuore

Il detective James Jondhall e sua moglie Catherine erano andati in vacanza all’hotel in montagna “The Top of Mountains”. Pensavano di trascorrere una vacanza tranquilla e rilassante, invece ad attenderli trovarono un omicidio che aspettava solo di essere risolto…

La luce era spenta. Eravamo a letto nella stanza numero 324 dell’hotel “The Top of Mountains”. I miei occhi erano socchiusi. Sentii un urlo e poi… Strch! Una finestra che si rompe. Mio marito si alzò di scatto, aprì la porta e corse nella stanza accanto. E’ da lì che era provenuto il rumore. Mi misi la vestaglia e lo raggiunsi. Che scena orribile!

Su una poltrona era seduto un anziano signore che teneva tra le mani un coltello. Gli occhi erano chiusi e la bocca spalancata. Il corpo era floscio, penzolante. Senza vita. Stava ancora perdendo sangue. Aveva una ferita profonda. Il colpevole non aveva avuto pietà. Una coltellata al cuore.

Chiamata la polizia, mio marito decise che avrebbe iniziato a investigare il giorno seguente perché era troppo stanco e come dice lui “la stanchezza nasconde le prove”.

Dopo colazione andammo sulla scena del crimine. La stanza era in ordine, non c’era niente fuori posto. Soltanto il libro che stava leggendo l’uomo prima che venisse ucciso. Mentre mio marito cercava di capire come il colpevole fosse riuscito a scappare dalla finestra, io cercai indizi. Era difficile capire cosa fosse accaduto, perché era tutto in ordine, non c’erano tracce. Ma prima che perdessi la speranza vidi qualcosa che luccicava opacamente. In bagno, allo spigolo della porta, c’era una forcina di colore oro arrugginito.

 A pranzo facemmo il punto della situazione. James mi domandò: “Allora, Katy, hai trovato qualcosa?”

“Si. Una prova. In bagno al colpevole è caduta una forcina color oro. E’ un po’ arrugginita, potrebbe averla usata per scassinare la porta”. Lui stava riflettendo. Adoro quando riflette. I suoi occhi azzurri come l’oceano sembrano guardare un punto a vuoto, ma invece stanno cercando nella mente prove, indizi, ricostruendo il caso.

“James, e invece tu, scoperto niente?”. Lui mi guardò e poi rispose: “Si. Ho scoperto come ha fatto il colpevole a lanciarsi dalla finestra e a scappare. Sotto la finestra c’era un salterello coperto dalla neve. Possiamo dedurre che il nostro colpevole sia un acrobata visto che i comuni mortali non riescono a saltare da dieci metri e atterrare su un salterello. Deve essere un esperto”.

Passammo tutto il pomeriggio a fare domande al personale e agli ospiti dell’albergo.

Una giovane donna, che avrà avuto all’incirca trent’anni, si avvicinò a noi piangendo e piagnucolando riuscì a dire: “Buongiorno, lei dev’essere il dective Jonhdall. Io sono la figlia del signor Greendelval, l’uomo che è stato ucciso la scorsa notte. Oh non sa quanto sono felice di conoscerla! Sono scioccata da quando mi hanno riferito della morte e spero che lei potrà risolvere il caso, detective, almeno potrò stare tranquilla quando l’assassino di mio padre sarà in carcere”. James le spiegò:

“Signorina Greendelval, per ora non abbiamo molte prove che ci aiutino. Se mi permette le vorrei fare qualche domanda”. Lei annuì e così iniziammo l’interrogatorio. “Lei sa se suo padre aveva qualche nemico, che centrasse su qualcosa che aveva fatto in passato?”. Lei negò. Mi sembrava un po’ persa quando le chiedevamo di parlarci di suo padre. Non conosceva molto di lui.

Insistetti chiedendole: “Signorina, lei ha una sua idea di chi potesse essere l’assassino?”. Lei ammise a malincuore: “Una mia idea ce l’ho. Non mi giudicate però. Io penso che si sia stata mia sorella minore. Vede, detective, la nostra infanzia non fu molto idilliaca. Nostra madre morì quando noi eravamo piccole e nostro padre iniziò a ubriacarsi per far passare il dolore della perdita. Ma l’alcol gli fece perdere anche la ragione: iniziò a picchiarci e a scatenare tutta la sua ira su di noi. E mia sorella non ce la faceva più a sopportarlo. Io cercavo di tranquillizzarla e di farle notare che dopotutto era nostro padre. Ma lei non ce la faceva. Poi i rapporti col tempo continuarono a peggiorare. Penso lei lo abbia fatto per rivendicare l’infanzia molto turbolenta”.

La sera, dopo cena, mi sedetti su una poltrona della hall per rilassarmi. Mi si avvicinò una signora molto anziana. Camminava con un bastone di legno ben lavorato. Dava l’aria di essere molto saggia per i suoi occhiali che posavano sulla punta del naso. Si sedette nella poltrona accanto alla mia e iniziò a borbottare che l’omicidio stava portando male voci sul suo albergo. Io la interruppì chiedendole:

“Signora, lei è la proprietaria di questo hotel?”. “Si, mia cara giovanotta. L’ho ereditato da mio padre”. Io volli argomentare: “Il signor Greendelval, l’anziano che è stato ucciso, era un cliente ordinario?”. Lei annuì lentamente e aggiunse: “Dal 1920 che viene nel nostro hotel, ogni vacanza estiva e natalizia. La prima volta che venne qua da noi, io avevo 20 anni, lui 23. Mi presi una cotta per lui. Era un uomo bello, alto, molto muscoloso. Era molto molto attraente. L’anno seguente, però, tornò con una donna incinta. Si era sposato prima che io potessi rivelargli il mio amore. Si vede che il mio destino non era quello di stare insieme a lui”. Io insistetti, volevo saperne di più. “Ha mai notato qualcosa di strano in questi anni?”. Lei confessò: “Deve sapere che il signor Greendelval era molto violento. L’ho visto picchiare sua figlia maggiore. Povere quelle due ragazze. La loro madre fu uccisa quando loro erano molto piccole. Non hanno avuto un’infanzia tranquilla. Io penso anche che sia stato il signor Greendelval ad uccidere la moglie, perché era geloso”.

La mattina seguente, mio marito mi disse di aver chiamato il fidanzato della sorella minore della signorina Greendelval, e di aver scoperto che lei era partita il giorno prima dell’omicidio da Parigi, dicendo che voleva chiarirsi col padre.

Mentre James continuava a investigare, io andai a sciare per rilassarmi un po’ visto che dopotutto ero in vacanza. Sulle piste incontrai la signorina Greendelval che, con lo snoboard, stava provando delle acrobazie. Mamma mia, che salti! La chiamai per chiederle se voleva prendersi una cioccolata calda con me e lei accettò volentieri. “Allora, signorina…”, “mi chiami Jasmine” mi interuppe. “Allora Jasmine, ho visto che sei molto brava con lo snowboard”. “La ringrazio. Sono un acrobata sulla neve”. Mentre si toglieva il casco notai che tra i capelli aveva qualcosa di luccicante…

Quando tornai all’albergo, chiamai mio marito che, prima che potessi aprire bocca, mi annunciò che era arrivata la sorella minore di Jasmine e che aveva capito chi era il colpevole. Io gli precisai che era proprio per quello che ero andata da lui. Avevo capito anch’io chi era il colpevole. Chiamate le due sorelle e l’ispettore della polizia, ci dirigemmo nella stanza del crimine.

Iniziò a parlare mio marito: “Vi abbiamo convocato qui stasera, perché abbiamo scoperto chi è l’assassino del signor Greendelval. Devo ammettere che è stato molto bravo a mantenere l’ordine, infatti è stato difficile trovare delle prove. L’unica cosa che non aveva pianificato è che il signor Greendelval lo stava aspettando”. James mi mandò un’occhiata e continuai io la spiegazione: ”In bagno ho trovato una forcina color oro che si era arrugginita. L’assassino deve averla usata per scassare la porta. Quando però è entrato e si è avvicinato all’anziano che si fingeva addormentato, si è spaventato quando l’uomo si è svegliato e la forcina gli è caduta. Dalla paura, tirò un urlo, molto acuto, tipico delle ragazze. Senza pensarci due volte, pugnalò l’anziano signore, e scappò, buttandosi dalla finestra e spaccando il vetro”. Mio marito concluse: “Noi abbiamo trovato un salterello sotto alla finestra e abbiamo pensato che l’assassino dovesse essere un bravo acrobata. Così, siamo giunti alla conclusione che il colpevole, colui che ha ucciso il signor Greendelval, è sua figlia Jasmine!”.

Lei, sbalordita, replicò: “Ma non avete prove contro di me!”. “Mia cara signorina, in questo si sbaglia. La mia acutissima moglie mi ha riferito che lei è una splendida acrobata con lo snoboard e in più, ha notato che lei indossava delle forcine identiche a quella che abbiamo trovato. Quindi non c’è dubbio, è lei il colpevole”.

Jasmine protestò: “E sentiamo, detective, perché lo avrei dovuto fare?”.

“Mi sembra molto ovvio, signorina. Ma se ancora non l’ha capito, glielo spiego. Sempre per merito di mia moglie, siamo venuti a conoscenza della morte di vostra madre. Ma non una morte accidentale, bensì pianificata. Siamo andati a ricercare nei vecchi archivi e abbiamo scoperto che a uccidere vostra madre è stato il signor Greendelval. Voi, ovviamente, lo sapevate, ma non potevate dire niente perché sennò vi avrebbe picchiate. Ed è così che lei ha voluto rivendicare la morte di sua madre e l’infanzia infelice che ha dovuto passare”.

Jasmine venne portata via dall’ispettore di polizia e noi, finalmente, potemmo tornare alla nostra vacanza che stava per concludersi.

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La libertà perduta

Ogni estate andavo in vacanza in montagna dai miei zii. La loro casa era enorme: comprendeva un vasto territorio coperto da fitti alberi che non lasciavano passare nemmeno uno spiraglio di luce. La struttura era fatta in mattoni e all’interno la casa era allestita con mobili moderni e il tutto era grazioso e accogliente.

La sera mi piaceva arrampicarmi su un albero a osservare il tramonto. Era bellissimo vedere come piano piano il sole si ritraeva e la valle diventava buia e silenziosa, terreno di caccia per i lupi. Prima che il sole scomparisse del tutto, mi affrettavo sempre a tornare a casa, perché non potevo girare per i boschi con il buio; avrei rischiato di perdermi. Una sera, però, c’era qualcosa che mi trattenne. Il paesaggio era sempre il solito, lo stesso paesaggio che osservavo tutte le sere, ma tirava un’aria diversa, nuova. Pensai: “Sarà perché oggi è il sostizio d’estate che l’aria ha un qualcosa di magico”, ma non lo avrei mai scoperto con certezza. L’unica cosa che soltanto ora so, è che quella sera fu l’ultima sera che vidi il tramonto. Fatto sta, che quando partii per tornare a casa, era buio pesto e mi persi. Camminavo alla ceca, alzando i piedi per non inciampare. Intorno a me c’era un silenzio agghiacciante, mosso solo dal frastagliare delle foglie e dal bubolare dei gufi. “Strhshhshh”. “Uh uh”. Ero nel panico, non sapevo cosa fare e soprattutto dove andare. Avevo paura.

Ad un tratto sentii un ramoscello spezzarsi dietro di me e il ringhiare di un lupo. Non ci misi molto a reagire. Iniziai a correre senza una meta. Non vedevo niente e due o tre volte quasi inciampai. Sentivo il fiatone del lupo alle mie spalle e corsi, corsi, come mai avevo fatto prima. Sbattei più volte la testa contro i rami più bassi, ma non mi fermai. Corsi più veloce che potei finchè non vidi la luna. Era grande e illuminava con una fioca luce la valle. Ero arrivato al limatare del bosco ma… da lì non potevo andare da nessuna parte. Davanti a me c’era un precipizio. Mi voltai di scatto e vidi tre lupi avvicinarsi lentamente, con la saliva che gli colava dalla bocca, come fossero deliziati della buona cena che avrebbero fatto. La mia fortuna mi aveva dato anche la scelta: da una parte una morte veloce, dall’altra una morte lenta, dolorosa, a cui avrei assistito. Senza pensarci due volte, mi buttai giù per il precipizio. Sentivo il vento fischiarmi dentro le orecchie. Andavo giù alla velocità di un missile. Mentre precipitavo pensavo a com’era la vita dopo la morte e a quanto mi avrebbe fatto male lo schianto. Persi conoscenza…

Non mi ricordo cosa mi successe. Sentivo delle voci, il calore del fuoco. L’unica cosa del quale ero sicuro era che non mi schiantai al suolo, perché non avevo nessun dolore. Pian piano la vista mi tornò lucida. Mi trovavo in una grotta. Al centro era acceso un grande falò. Vidi degli uomini: erano vestiti come degli indiani. Indossavano degli stracci che li coprivano dalla vita al ginocchio. Sui pettorali e sui bicipiti avevano dei tatuaggi. Stavano ballando intorno al falò, quando un uomo diverso da loro mi si avvicinò. Non era un primitivo. Era abbastanza alto e snello. Indossava degli abiti malridotti degli anni ’80. Il suo viso era pieno di graffi e cicatrici. Sul collo notai il segno tangibile di una corda. I suoi occhi erano gonfi e pieni di dolore e tristezza. Mi osservò, poi guardò il suo braccio e mi disse con una voce bassa e malinconica:

“Mi dispiace tanto. Sei il prescelto. Io non lo voglio fare, ma… qui, i capi sono loro” e col mento mi fece cenno agli uomini intorno al falò. Mi prese con forza per il braccio e mi portò vicino al fuoco. Gli indiani iniziarono a cantare una melodia simile a quella che si sente ai funerali, caratterizzata dai battiti di un tamburo. Mentre gli uomini ballavano una danza etnica, l’uomo mi spinse dentro il falò e mi seguì. Per mia grande sorpresa non presi fuoco. Ma era meglio se succedeva. Mi prese il braccio e lo appoggiò dove aveva un tatuaggio strano: un uomo di colore bianco. Iniziò a pronunciare parole senza senso, ma compresi che mi stava facendo un sortilegio. Il braccio mi inziò a bruciare e sentii come un ago che mi incideva la pelle, mentre l’uomo diceva:

“Ecco a te la mia preda,

ora lascia la mia anima in pena,

prendi la sua e dammi tregua.”

Sentii ancora più dolore finchè l’uomo non andò in fiamme e le sue ceneri volarono via. Sul mio braccio era inciso il tatuaggio dell’uomo, l’unica differenza era che il mio, invece di essere bianco, era nero.

Gli indiani mi trattarono come un dio, ma quando mi portarono una preda da uccidere e io mi rifiutai, loro mi torturarono fino alla morte. Il problema era che ero immortale. Così, dovevo uccidere, massacrare contro il mio volere. Finchè mi portavano animali, ero abbastanza tranquillo, sereno; quando poi mi ordinarono di uccidere un umano, la mia anima era traumatizzata. Vedevo il viso di quegli uomini pieno di dolore e di paura, mentre io gli tiravo coltellate al cuore. Mi sentivo così male a uccidere uno della mia stessa specie. Ma dovevo farlo, sennò gli uomini torturavano me a vita eterna.

Col tempo ho capito che questa tortura avrebbe avuto una fine. Quando il mio tatuaggio sarebbe diventato bianco, avrei potuto mettere qualcun altro al mio posto. L’unica cosa che posso fare adesso è aspettare e uccidere per non essere torturato.