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Il Mondo Che Vorrei

Una vita affogata

Nella tarda sera del 2 gennaio è morto un bambino di due anni a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Il bambino, dalle ipotesi, sarebbe caduto in acqua e sarebbe annegato. I carabinieri hanno interrogato la madre, con cui si trovava il bambino al momento del decesso, il padre e i presenti. Dopo due giorni la madre ha confessato: è lei l’omicida. La vicenda si è svolta così: verso le 21.00 lei ha preso il figlio per andare a fare una passeggiata lungo il mare; arrivati nella località La Scala lo ha spinto nell’acqua e il piccolo, non sapendo nuotare, è annegato. Soltanto dopo ha chiamato aiuto; i soccorritori, due giovani del posto, si sono buttati in acqua per salvare il bambino che era, purtroppo, già esanime. La madre, invece, era asciutta. Ha confessato di averlo ucciso perché pensava fosse affetto da ritardo mentale; dopo l’interrogatorio è stata trasferita al carcere femminile di Pozzuoli, accusata di omicidio volontario. 

Sto scrivendo di questa vicenda perché non mi spiego come possa una madre arrivare a uccidere il proprio figlio, disabile o meno. I concittadini hanno rivelato di essere rimasti scioccati dall’accaduto e hanno tutti accusato fin dall’inizio la donna, poiché era asciutta e quindi non aveva nemmeno provato a salvare suo figlio. Io concordo pienamente con loro. Mia madre mi ha sempre detto che il legame materno è l’amore più forte che esista: quando una donna genera un bambino, quella creatura è una parte di lei e, quindi, uccidere il proprio figlio significa distruggere una parte di te. Una madre si sarebbe buttata in acqua anche a costo della propria vita per salvare quella del figlio, ma la quarantenne denunciata non lo ha fatto: il perché è vergognoso. Il figlio, infatti, sarebbe potuto essere disabile, anche se i medici non lo avevano ancora accertato. Perché ucciderlo ancora prima di sapere con certezza la diagnosi? E comunque, anche se i medici avessero confermato i sospetti, non è una scusa per togliere la vita a un bambino. Anche i disabili hanno diritto alla vita; hanno bisogno di più cure e attenzioni, ma sono perfettamente in grado di dare gioia e amore come i figli “normali”. Sono anche loro esseri umani, anzi, quel bambino era più umano di sua madre, perché un uomo o una donna che compie un gesto simile non è degno di definirsi tale. 

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Racconto di guerra

Ho scritto questo racconto due anni fa, durante un compito in classe. Era una normale giornata di gennaio e la mia prof mi assegnò questa traccia: dovevo immaginare di essere un inviato di guerra di un giornale e dovevo raccontare la mia esperienza. Io non so come ci si sente a vivere in un paese afflitto dalla guerra e perciò ringrazio ogni giorno il Signore per aver avuto il privilegio di nascere in Italia. Posso solamente immaginare cosa si provi e voglio aiutare quelle persone, partendo dal raccontare di loro.

Ecco le prime luci dell’alba che illuminano il buio della notte. L’inizio di un nuovo giorno. I raggi radianti del sole illuminano piano piano il territorio. Se fossi nella mia Firenze quei raggi luminosi risplenderebbero su alcune delle bellezze architettoniche del mondo. Ma qui no. Qui il sole si fa strada tra le macerie di case distrutte dalle bombe. Case dove abitavano famiglie sono state distrutte e quelle povere persone adesso si ritrovano per strada, senza niente, senza sapere dove andare, vittime della guerra tra i potenti…

Il sole sale alto nel cielo come ogni giorno per portare luce in questo inferno, portando con sé una leggera speranza. Speranza nella pace che aiuta i cittadini ad andare avanti. Una speranza che resta vivida nella religione e che si nasconde appena partono le sparatorie.

Mezzogiorno. I soldati girano per la città o per meglio definirla un mare di macerie; sono armati con dei fucili carichi che fanno tremare soltanto a guardarli. Alcuni sono su dei carro armati. Camminano lentamente. Quando passano tutto tace. La gente si ferma e li osserva. Bambini impauriti, con gli occhi spalancati che tengono a fatica le lacrime e le bocche tremolanti che soffocano urli di paura; si nascondono dietro le proprie madri, aggrappandosi stretti alle loro gambe, per il terrore che qualcuno li porti via. Le donne indossano il burqa. Del loro volto si possono osservare soltanto gli occhi che, come finestre sull’anima, mostrano la paura e la rabbia che c’è in loro. I soldati passano tranquilli ma sempre in allerta. Fucili carichi pronti a sparare al primo minimo movimento falso. Quel silenzio terrificante è interrotto solamente dagli scarponi dei soldati che, pesanti come cemento, sbattono sul terreno, cosparso di polvere e ciottoli di edifici spazzati via dalle bombe.

Tre del pomeriggio. La comunità si ritrova a pregare. La moschea è piccola ma è l’unico luogo rimasto per ritrovarsi e pregare. Gli uomini e le donne sono divisi. Inginocchiati su polverosi e sciupati tappeti un tempo molto pregiati, pregano in un rigoroso silenzio controllato dai soldati armati. Si può intuire facilmente quali sono le disperate preghiere di quei fedeli: “Aiutateci, Signore. Riporti la pace in questo luogo devastato dalla guerra. Abbiamo fame. Vogliamo una casa dove dormire. Vi prego, aiutateci…”

BOOM!

Un rumore sordo e lontano che si propaga per tutta la città. Una bomba interrompe il silenzio della preghiera e aziona il caos. Il soldato urla in una lingua che non conosco, ma lo comprendo perfettamente: “Presto, correte!”. La gente esce dalla moschea correndo e urlando e scappa tornando velocemente ai cavò dove trova rifugio e salvezza dai proiettili e dalle bombe.

La battaglia è cominciata. Sparatorie in qua e là. Proiettili che volano ad altissima velocità. Non li vedi passare.

BOOM!

Un’altra bomba scoppia dall’altra parte della città. Intanto qui infuriano i proiettili.

BOOM! BOOM!

Un uomo cade a terra. Un soldato ferito alla spalla geme vicino a me. Mentre la battaglia infuria lo aiuto, nascosti tra le macerie. Il sangue sgorga velocemente. E’ dannatamente caldo. Cerco di bloccarlo con una fascia. Aspettiamo che la battaglia finisca. Trascorrono credo un paio d’ore. Ore d’inferno. Sento nella mia testa il riecheggio delle grida, degli spari, delle bombe…

Usciamo dal nostro nascondiglio. Mi metto il suo braccio intorno al collo e lo tiro su. Camminiamo lungo la strada per portarlo all’infermeria. La via è diventata un cimitero. Soldati a terra morti. C’è chi è stato colpito alla spalla, chi alla gamba, chi dritto al cuore. Qualcuno è stato colpito alla testa. Il caschetto verde non l’ha protetto dalla morte. I loro volti sono pallidi. I loro corpi sono coperti di sangue. Vedo arrivare verso di noi un soldato. La divisa mimetica è lurida di polvere e sangue. Il viso è graffiato. Si avvicina a noi, prende il compagno e se lo carica sulle spalle. Mi ringrazia. I suoi occhi sono lucidi, ancora terrorizzati dalla battaglia e dalla morte di molti compagni. Lucidi di gioia nel vedere l’amico ancora vivo. Si allontana con lui verso il tramonto.

Torno alla tenda. Il sole ormai è quasi scomparso dietro l’orizzonte. Il cielo ha quel colore rosso fuoco. Tra poco si trasformerà nell’oscuro buio della notte. In tempi di guerra nemmeno le stelle, luminose lampadine della notte, bastano a portare un po’ di luce nei cuori delle persone. La paura oscura tutto. Stasera però c’è la luna piena. Argentea e luminosa domina nel cielo, ignara di quello che succede sulla terra.

Il corno suona: le dieci, l’inizio del coprifuoco. Chiunque venga trovato fuori da ora fino all’alba verrà ucciso. Sto per addormentarmi quando…

BOOM!

Un’altra bomba. Impazzano le sirene. Si sentono squadriglie di soldati che corrono. I pianti laceranti dei bambini sono urli di disperazione: “Cosa ho fatto di male per nascere in questo inferno?”.

Finalmente mezzanotte. Tutto tace e il sonno porta con sé il silenzio. La notte diventa ancora più buia e spaventosa. Un pensiero mi assale alla mente. Ma se la finissi qui. Un altro giorno di paura, terrore, morte… Non si può sopravvivere in questo inferno.

Aspettiamo i rinforzi.

Intanto non ci resta che sperare in futuro più radioso. 

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Voto ai sedicenni

Enrico Letta, ex presidente del Consiglio, rilancia la proposta di voto ai sedicenni.

Qualche giorno fa l’ex presidente del consiglio Enrico Letta ha rilanciato la proposta di voto ai sedicenni. Come sempre, l’Italia si è divisa in due: contrari e favorevoli. Se questa idea dovesse andare in porto, cosa poco probabile, si andrebbe a modificare per la prima volta la nostra Costituzione, in particolare gli articoli 48 e 58.

Personalmente trovo molto difficile decidere se sia favorevole o contraria alla proposta di voto per i sedicenni. Essendo giovane e vicina a quell’età, ci si aspetterebbe che fossi d’accordo ma, sinceramente, non lo so. Questa mia indecisione è dettata soprattutto da una domanda che continua ad assillarmi: se avessi 16 anni e potessi votare, chi voterei? Ecco che qui arrivano i dubbi. Non ho idea di chi voterei. Anche se seguo abbastanza il telegiornale e cerco di tenermi informata sui temi politici, mi sento totalmente sprovveduta. A noi ragazzi insegnano poco o nulla della politica italiana. Io la sento molto distante, nonostante sappia che è una costante nella mia vita giornaliera; infatti è per una scelta politica se in questo periodo storico posso andare a scuola. E lo sarà quando, probabilmente, richiuderanno tutto. 

Quasi certamente, chiederei ai miei genitori e voterei chi votano loro. Questo, però, non sarebbe molto utile. Inoltre, in Italia i ragazzi di 16 e 17 anni sono all’incirca 1,1 milioni: scommetto che la maggior parte non ha interesse a votare. Noi giovani ci appassioniamo alle cose, scendiamo in piazza per manifestare e urlare la nostra voce al mondo; lo facciamo per far sentire agli adulti che esistiamo e che, al contrario di ciò che molti di loro credono, non siamo immaturi e siamo capaci di prendere posizione. Però io non darei il voto ai sedicenni, perchè è un periodo della vita in cui iniziamo a capire chi siamo e quali sono i nostri ideali e ciò che vogliamo perseguire. Io preferisco piuttosto aspettare i diciotto e intanto protestare in piazza (che è anche molto più divertente). Vorrei che la politica si concentrasse e si occupasse sul serio di noi giovani, invece di cercare di ottenere il nostro voto. Vorrei che si impegnassero ad aumentare i fondi per l’istruzione e la ricerca, che sono le vere cose che interessano a noi. Il nostro voto, infatti, non cambierebbe molto il quadro politico perchè, appunto, siamo pochi. 

In conclusione, sono contraria alla proposta di voto per i sedicenni non perché non li ritengo abbastanza maturi, poiché sarebbe come darmi dell’ingenua, ma perché non porterebbe a nessun cambiamento significativo.