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Il Mondo Che Vorrei

Una vita affogata

Nella tarda sera del 2 gennaio è morto un bambino di due anni a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Il bambino, dalle ipotesi, sarebbe caduto in acqua e sarebbe annegato. I carabinieri hanno interrogato la madre, con cui si trovava il bambino al momento del decesso, il padre e i presenti. Dopo due giorni la madre ha confessato: è lei l’omicida. La vicenda si è svolta così: verso le 21.00 lei ha preso il figlio per andare a fare una passeggiata lungo il mare; arrivati nella località La Scala lo ha spinto nell’acqua e il piccolo, non sapendo nuotare, è annegato. Soltanto dopo ha chiamato aiuto; i soccorritori, due giovani del posto, si sono buttati in acqua per salvare il bambino che era, purtroppo, già esanime. La madre, invece, era asciutta. Ha confessato di averlo ucciso perché pensava fosse affetto da ritardo mentale; dopo l’interrogatorio è stata trasferita al carcere femminile di Pozzuoli, accusata di omicidio volontario. 

Sto scrivendo di questa vicenda perché non mi spiego come possa una madre arrivare a uccidere il proprio figlio, disabile o meno. I concittadini hanno rivelato di essere rimasti scioccati dall’accaduto e hanno tutti accusato fin dall’inizio la donna, poiché era asciutta e quindi non aveva nemmeno provato a salvare suo figlio. Io concordo pienamente con loro. Mia madre mi ha sempre detto che il legame materno è l’amore più forte che esista: quando una donna genera un bambino, quella creatura è una parte di lei e, quindi, uccidere il proprio figlio significa distruggere una parte di te. Una madre si sarebbe buttata in acqua anche a costo della propria vita per salvare quella del figlio, ma la quarantenne denunciata non lo ha fatto: il perché è vergognoso. Il figlio, infatti, sarebbe potuto essere disabile, anche se i medici non lo avevano ancora accertato. Perché ucciderlo ancora prima di sapere con certezza la diagnosi? E comunque, anche se i medici avessero confermato i sospetti, non è una scusa per togliere la vita a un bambino. Anche i disabili hanno diritto alla vita; hanno bisogno di più cure e attenzioni, ma sono perfettamente in grado di dare gioia e amore come i figli “normali”. Sono anche loro esseri umani, anzi, quel bambino era più umano di sua madre, perché un uomo o una donna che compie un gesto simile non è degno di definirsi tale. 

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La mia vita

Spumante e nuovi propositi

Premessa. Questo è quello che mi succede quando festeggio Capodanno chiusa in casa: mi ritrovo all’una di notte a pormi le domande esistenziali e a cercare delle risposte alquanto filosofiche, aiutandomi anche con un po’ di greco 🙂

La notte tra il 31 dicembre e l’1 gennaio è la notte dei nuovi propositi. Ognuno di noi, mentre festeggia con un bicchiere di spumante in mano l’arrivo del nuovo anno, si ferma un attimo a pensare cosa vuole cambiare nella sua vita. Ogni nuovo anno stiliamo una lista di nuovi propositi sperando di seguirli con costanza e determinazione perché ogni anno vogliamo che la nostra vita cambi in meglio. Arriviamo alla fine esausti, a volte delusi dal tempo passato, desiderando di averlo trascorso in modo diverso; e così cerchiamo di rinascere, di ricominciare da capo cambiando le nostre abitudini, cercando di abbandonare i nostri vizi. Sono però arrivata alla conclusione che l’unica cosa che ricomincia da capo è il calendario, non la nostra vita. Nell’esistenza si nasce una volta sola: ora sto crescendo e non smetterò di farlo finché non morirò. E’ questo il ciclo della vita. Ecco perché quest’anno nella mia lista di propositi ce n’è solo uno: crescere e conoscere me stessa. Di recente ho letto un libro che mi ha aperto gli occhi: c’era un professore che spiegava ai suoi studenti l’entelechia, cioè la propensione di un qualsiasi individuo a realizzare se stesso in base a ciò che è in potenza. Dentro di me ho già le mie potenzialità che mi permetteranno un giorno di compiermi; ora devo concentrarmi nel scoprire quali sono.

Tutto ciò che ho fatto, le mie scelte, i miei comportamenti, tutto definisce chi sono. Non ho mai conosciuto qualcuno che è chi vorrebbe essere. Io non ci sono nemmeno lontanamente vicina al tipo di persona che vorrei essere, ma non è questo il mio obiettivo; so perfettamente che non sarò mai la mia persona ideale, ma migliorerò me stessa ogni giorno per avvicinarmici, perché siamo esseri perfettibili e non possiamo fermarci a uno stato d’essere: è nella nostra natura muoverci sia nello spazio esterno sia in quello interno, cambiando il nostro io.  

Quest’anno riuscirò a trovare me stessa, ad accettarmi e a non fingere più: voglio la verità. 

Quest’anno riuscirò a trovare il mio scopo, ciò che mi dovrebbe far alzare la mattina, il mio perché; credo di averne molto bisogno per spingermi oltre i miei limiti, per resistere e non mollare mai e per rialzarmi dopo un fallimento. 

Quest’anno riuscirò a seguire il mio istinto e a vivere nel presente senza pensare troppo al passato o al futuro, ma ricordandomi sempre di chi sono stata per diventare chi sarò. 

Quest’anno riuscirò a essere e non ad avere o fare; alla fine della mia vita voglio essere ricordata per la persona che sono stata e non per quello che ho fatto o posseduto. Voglio vivere ed essere al 100% e non sprecare il mio tempo, perché ogni minuto che passa sull’orologio possa valere la pena ricordarlo. 

Quest’anno riuscirò finalmente a fare qualcosa di concreto; trasformerò questi buoni propositi in fatti, azioni, affinché non diventino inutili parole dimenticate.

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Il Mondo Che Vorrei

Racconto di guerra

Ho scritto questo racconto due anni fa, durante un compito in classe. Era una normale giornata di gennaio e la mia prof mi assegnò questa traccia: dovevo immaginare di essere un inviato di guerra di un giornale e dovevo raccontare la mia esperienza. Io non so come ci si sente a vivere in un paese afflitto dalla guerra e perciò ringrazio ogni giorno il Signore per aver avuto il privilegio di nascere in Italia. Posso solamente immaginare cosa si provi e voglio aiutare quelle persone, partendo dal raccontare di loro.

Ecco le prime luci dell’alba che illuminano il buio della notte. L’inizio di un nuovo giorno. I raggi radianti del sole illuminano piano piano il territorio. Se fossi nella mia Firenze quei raggi luminosi risplenderebbero su alcune delle bellezze architettoniche del mondo. Ma qui no. Qui il sole si fa strada tra le macerie di case distrutte dalle bombe. Case dove abitavano famiglie sono state distrutte e quelle povere persone adesso si ritrovano per strada, senza niente, senza sapere dove andare, vittime della guerra tra i potenti…

Il sole sale alto nel cielo come ogni giorno per portare luce in questo inferno, portando con sé una leggera speranza. Speranza nella pace che aiuta i cittadini ad andare avanti. Una speranza che resta vivida nella religione e che si nasconde appena partono le sparatorie.

Mezzogiorno. I soldati girano per la città o per meglio definirla un mare di macerie; sono armati con dei fucili carichi che fanno tremare soltanto a guardarli. Alcuni sono su dei carro armati. Camminano lentamente. Quando passano tutto tace. La gente si ferma e li osserva. Bambini impauriti, con gli occhi spalancati che tengono a fatica le lacrime e le bocche tremolanti che soffocano urli di paura; si nascondono dietro le proprie madri, aggrappandosi stretti alle loro gambe, per il terrore che qualcuno li porti via. Le donne indossano il burqa. Del loro volto si possono osservare soltanto gli occhi che, come finestre sull’anima, mostrano la paura e la rabbia che c’è in loro. I soldati passano tranquilli ma sempre in allerta. Fucili carichi pronti a sparare al primo minimo movimento falso. Quel silenzio terrificante è interrotto solamente dagli scarponi dei soldati che, pesanti come cemento, sbattono sul terreno, cosparso di polvere e ciottoli di edifici spazzati via dalle bombe.

Tre del pomeriggio. La comunità si ritrova a pregare. La moschea è piccola ma è l’unico luogo rimasto per ritrovarsi e pregare. Gli uomini e le donne sono divisi. Inginocchiati su polverosi e sciupati tappeti un tempo molto pregiati, pregano in un rigoroso silenzio controllato dai soldati armati. Si può intuire facilmente quali sono le disperate preghiere di quei fedeli: “Aiutateci, Signore. Riporti la pace in questo luogo devastato dalla guerra. Abbiamo fame. Vogliamo una casa dove dormire. Vi prego, aiutateci…”

BOOM!

Un rumore sordo e lontano che si propaga per tutta la città. Una bomba interrompe il silenzio della preghiera e aziona il caos. Il soldato urla in una lingua che non conosco, ma lo comprendo perfettamente: “Presto, correte!”. La gente esce dalla moschea correndo e urlando e scappa tornando velocemente ai cavò dove trova rifugio e salvezza dai proiettili e dalle bombe.

La battaglia è cominciata. Sparatorie in qua e là. Proiettili che volano ad altissima velocità. Non li vedi passare.

BOOM!

Un’altra bomba scoppia dall’altra parte della città. Intanto qui infuriano i proiettili.

BOOM! BOOM!

Un uomo cade a terra. Un soldato ferito alla spalla geme vicino a me. Mentre la battaglia infuria lo aiuto, nascosti tra le macerie. Il sangue sgorga velocemente. E’ dannatamente caldo. Cerco di bloccarlo con una fascia. Aspettiamo che la battaglia finisca. Trascorrono credo un paio d’ore. Ore d’inferno. Sento nella mia testa il riecheggio delle grida, degli spari, delle bombe…

Usciamo dal nostro nascondiglio. Mi metto il suo braccio intorno al collo e lo tiro su. Camminiamo lungo la strada per portarlo all’infermeria. La via è diventata un cimitero. Soldati a terra morti. C’è chi è stato colpito alla spalla, chi alla gamba, chi dritto al cuore. Qualcuno è stato colpito alla testa. Il caschetto verde non l’ha protetto dalla morte. I loro volti sono pallidi. I loro corpi sono coperti di sangue. Vedo arrivare verso di noi un soldato. La divisa mimetica è lurida di polvere e sangue. Il viso è graffiato. Si avvicina a noi, prende il compagno e se lo carica sulle spalle. Mi ringrazia. I suoi occhi sono lucidi, ancora terrorizzati dalla battaglia e dalla morte di molti compagni. Lucidi di gioia nel vedere l’amico ancora vivo. Si allontana con lui verso il tramonto.

Torno alla tenda. Il sole ormai è quasi scomparso dietro l’orizzonte. Il cielo ha quel colore rosso fuoco. Tra poco si trasformerà nell’oscuro buio della notte. In tempi di guerra nemmeno le stelle, luminose lampadine della notte, bastano a portare un po’ di luce nei cuori delle persone. La paura oscura tutto. Stasera però c’è la luna piena. Argentea e luminosa domina nel cielo, ignara di quello che succede sulla terra.

Il corno suona: le dieci, l’inizio del coprifuoco. Chiunque venga trovato fuori da ora fino all’alba verrà ucciso. Sto per addormentarmi quando…

BOOM!

Un’altra bomba. Impazzano le sirene. Si sentono squadriglie di soldati che corrono. I pianti laceranti dei bambini sono urli di disperazione: “Cosa ho fatto di male per nascere in questo inferno?”.

Finalmente mezzanotte. Tutto tace e il sonno porta con sé il silenzio. La notte diventa ancora più buia e spaventosa. Un pensiero mi assale alla mente. Ma se la finissi qui. Un altro giorno di paura, terrore, morte… Non si può sopravvivere in questo inferno.

Aspettiamo i rinforzi.

Intanto non ci resta che sperare in futuro più radioso. 

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I miei racconti fantasy

Il soffio del vento

“Il soffio del vento” fu l’inizio di tutto. Tre anni fa la mia prof. di Italiano ci assegnò come compito da scrivere un racconto del mistero. Il mio, cioè il seguente, piacque tantissimo e da lì nacque l’idea di questo blog dove condividere la mia passione per la scrittura.

Buona lettura!

Fin da quando ero giovane amavo sciare. Amavo guardare il mondo dalla vetta di una montagna e… via giù per la pista alla velocità del vento, quasi prendessi il volo.

Vivevo in un paesello tra le montagne, dove ero nato e cresciuto. Ero un grande sciatore, come mio babbo e mio nonno prima di me. Buon sangue non mente! Avevo la camera tappezzata di medaglie e premi. A ogni gara stabilivo nuovi record. In città tutti mi chiamavano “la Scia”, perché mi piaceva sciare di notte e così, per illuminare la pista, attaccavo con lo scotch due torce alle bacchette e quando vedevi una lucina che scendeva giù veloce lungo la montagna, intuivi subito che ero io. L’unico record che non sono mai riuscito a battere è quello di “Fuori pista al buio”. Ogni volta che vincevo una gara o un premio, la gente della città mi diceva:

“Congratulazioni Marco! Sei stato bravissimo! Ma ancora non sei riuscito a battere la vecchia ragazzina nel fuori pista. Non ce la farai mai”; perciò vivevo sotto l’ombra del record di questa ragazzina di cui nessuno sapeva niente.

Un giorno chiesi a mio nonno, visto che lui era vissuto in quel paese fin da quando era nato, se conosceva la vecchia ragazzina di cui tanto parlava la gente, ma di cui nessuno sapeva dirmi nulla. Il nonno mi guardò prima con aria perplessa, come se non avesse capito la mia domanda, poi mi disse con il suo vocione calmo e gentile:
“Vedi Marco, tanto tempo fa, quando io avevo la tua età, c’era una ragazza che sciava meglio di chiunque altro. A volte gli sciatori più esperti venivano nel nostro paese per sfidarla, ma nessuno riusciva a batterla. Volava giù lungo la pista come se fosse vento. Molte società le avevano proposto di gareggiare per loro, ma lei aveva sempre rifiutato, perché non le interessavano i soldi, ma solo vivere la sua passione. Lei, come te, amava sciare di notte, quando le piste erano libere. Una sera venne giù una forte nevicata e questa ragazza era a sciare…” tutto a un tratto mio nonno smise di raccontare. I suoi grandi occhi grigio chiari stavano osservando un punto nel vuoto, come se fossero incantati. All’improvviso si risvegliò dai suoi pensieri: “Eh, dove ero rimasto? Ah, sì! La mattina dopo non si ebbe più notizie di lei. Si pensò che una valanga di neve l’avesse travolta. Tutto il paese contribuì alle ricerche, ma dopo un paio di settimane decidemmo di smettere, perché avevamo setacciato l’intera zona senza aver trovato traccia della ragazza. Pian piano, col passare degli anni, la gente iniziò a dimenticare quella ragazzina e ora il suo ricordo continua a vivere soltanto nei suoi record.”

Io, che ero molto incuriosito dalla storia, chiesi al nonno:
“ Nonno, ma nessuno sa cosa le è successo?” e lui, annuendo, mi rispose:

“Nessuno. Bene, ora, se non ti dispiace, devo andare a farmi una bella tazza di tè caldo” e detto ciò si alzò con molta fatica, dati i suoi tanti anni, e si diresse in cucina. Decisi di prendere gli sci e uscii di casa per schiarirmi un po’ le idee.

Mentre ero sulla vetta della montagna, alzai lo sguardo verso il cielo, che quella sera era illuminato dalla luna piena, e vidi una stella cadente. Subito chiusi gli occhi ed espressi un desiderio. Tirò una folata di vento e partii. Il vento mi fischiava dentro le orecchie e a un tratto sentii una ragazza urlare di felicità: “Uihhh! Si vola!” e qualcosa mi sfiorò. All’improvviso le grida si trasformarono in un urlo di paura: “Aiuto! Qualcuno mi aiuti” che vennero sormontate dal ringhiare e ululare di un lupo e… Bumm! Mi ritrovai a terra, sepolto per metà dalla neve e con un grande dolore al braccio destro e un forte mal di testa. Sentivo le grida di disperazione di una ragazza nella mia testa, come un eco, come un martello che mi volesse spaccare il cranio dal dolore. Sentii una mano calda appoggiarsi sul mio petto e mi svegliai. Era ancora notte, la luna sorgeva alta sopra di me e illuminava il volto di una giovane. Aveva la pelle pallida, i capelli lunghi e neri. Indossava una tuta da sci di colore bianco che si confondeva con la neve. Ai piedi aveva degli scarponi trasandati dall’uso costante, mentre gli sci di legno erano lisci e perfetti, senza alcun difetto. Mi stava osservando e quando si accorse che ero sveglio sobbalzò. Incrociai i suoi occhi grigio chiari e notai una certa somiglianza tra lei e qualcuno che conoscevo; mi faceva troppo male la testa, però, per riconoscerlo.  

La ragazza mi travolse di domande:
“Ciao. Chi sei? Sei ferito? Cosa ci fai qui a quest’ora?”. Io, ancora scombussolato dal dolore, le risposi:

“ Mi chiamo Marco Sarghenti e…” sembrava incuriosita dal mio nome, come se le fosse familiare. “Vengo dal paesino che sta a valle. Volevo farmi una sciata notturna. Tu chi sei? Che cosa ci fai qui? Eri tu che urlavi?”. Prima di rispondere ci pensò su e alla fine mi disse:

“Anch’io sono originaria del paese da cui provieni. Ora la mia casa sono le montagne: vado d’ovunque mi porti la neve e il vento. Ti serve una mano, Marco?”

Nella mia testa i pensieri ruotavano come un tornado e non riuscivo ad avere un’idea chiara di chi fosse quella ragazzina. Mi volli dunque togliere i dubbi chiedendole nuovamente chi era.

Non ebbi alcuna risposta. Se ne stava lì ferma a osservarmi. Non volevo chiederle aiuto, perché, voglio dire, avevo una reputazione da difendere, e se in paese si fosse venuto a sapere che mi ero fatto aiutare da una ragazzina, mi avrebbero riso in faccia per tutta la vita. Ella allora partì e io rimasi lì tutto solo, immerso nella neve. Dopo poco mi pentii della mia scelta e, con molto imbarazzo, la chiamai:
“Ehi tu! Ragazza… del vento! Ci ho ripensato e mi servirebbe una mano!”. Mi misi ad ascoltare se arrivava e molto lontano sentii delle risate di scherno, poi tirò un’altra folata ed eccola lì davanti a me.

“Vedo che ci hai ripensato” mi disse con un sorriso stampato sulla faccia. Ero diventato tutto rosso per l’imbarazzo.
“Eh, già. Mi servirebbe proprio una mano. Mi puoi aiutare, per favore?”.

Annuì. Iniziò a tirare un vento fortissimo che si avvolse tutto intorno alla ragazza come un tornado di neve. Piano piano rallentò, ma senza smettere e vidi… un pupazzo di neve! Incredibile! Si era trasformata: ora al posto degli occhi grigi c’erano due sassolini; il nasino all’insù era diventato una carota e le mani si erano trasformate in legnetti. Sì, insomma, un normale pupazzo di neve. Mi correggo, non era normale. Il pupazzo-ragazza sollevò la neve e iniziò a farla ruotare in tondo, come per alimentare il tornado di prima. Solo che stavolta dentro c’ero anch’io!

Non riuscivo a vedere nulla, così chiusi gli occhi. Quando li riaprii, il tornado non c’era più e davanti a me c’era di nuovo la ragazza, con un aria da “non è successo nulla”. Non avevo più il braccio rotto ed ero in piedi con gli sci agganciati. Mi diede una spinta che mi fece volare giù per la pista come vento. Non vedevo niente, andavo solo a dritto. Mentre scendevo sentii la sua voce che mi diceva ridacchiando:
“Sta attento! Non posso mica venire tutte le volte a ripescarti tra la neve…Ih, ih, ih!”.

Quando persi velocità mi ritrovai sul sentiero che portava al paese. Era l’alba. Tornai a casa il più velocemente possibile. Quando entrai, trovai seduto sulla poltrona mio nonno che leggeva un giornale. Aveva un’aria calma. Non era preoccupato che io fossi tornato così tardi. Mi salì un dubbio. Gli chiesi:
“Nonno, tu conoscevi la ragazza?”. Mio nonno sospirò e mi rispose:
“Si, la conoscevo”.

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Il Mondo Che Vorrei

Voto ai sedicenni

Enrico Letta, ex presidente del Consiglio, rilancia la proposta di voto ai sedicenni.

Qualche giorno fa l’ex presidente del consiglio Enrico Letta ha rilanciato la proposta di voto ai sedicenni. Come sempre, l’Italia si è divisa in due: contrari e favorevoli. Se questa idea dovesse andare in porto, cosa poco probabile, si andrebbe a modificare per la prima volta la nostra Costituzione, in particolare gli articoli 48 e 58.

Personalmente trovo molto difficile decidere se sia favorevole o contraria alla proposta di voto per i sedicenni. Essendo giovane e vicina a quell’età, ci si aspetterebbe che fossi d’accordo ma, sinceramente, non lo so. Questa mia indecisione è dettata soprattutto da una domanda che continua ad assillarmi: se avessi 16 anni e potessi votare, chi voterei? Ecco che qui arrivano i dubbi. Non ho idea di chi voterei. Anche se seguo abbastanza il telegiornale e cerco di tenermi informata sui temi politici, mi sento totalmente sprovveduta. A noi ragazzi insegnano poco o nulla della politica italiana. Io la sento molto distante, nonostante sappia che è una costante nella mia vita giornaliera; infatti è per una scelta politica se in questo periodo storico posso andare a scuola. E lo sarà quando, probabilmente, richiuderanno tutto. 

Quasi certamente, chiederei ai miei genitori e voterei chi votano loro. Questo, però, non sarebbe molto utile. Inoltre, in Italia i ragazzi di 16 e 17 anni sono all’incirca 1,1 milioni: scommetto che la maggior parte non ha interesse a votare. Noi giovani ci appassioniamo alle cose, scendiamo in piazza per manifestare e urlare la nostra voce al mondo; lo facciamo per far sentire agli adulti che esistiamo e che, al contrario di ciò che molti di loro credono, non siamo immaturi e siamo capaci di prendere posizione. Però io non darei il voto ai sedicenni, perchè è un periodo della vita in cui iniziamo a capire chi siamo e quali sono i nostri ideali e ciò che vogliamo perseguire. Io preferisco piuttosto aspettare i diciotto e intanto protestare in piazza (che è anche molto più divertente). Vorrei che la politica si concentrasse e si occupasse sul serio di noi giovani, invece di cercare di ottenere il nostro voto. Vorrei che si impegnassero ad aumentare i fondi per l’istruzione e la ricerca, che sono le vere cose che interessano a noi. Il nostro voto, infatti, non cambierebbe molto il quadro politico perchè, appunto, siamo pochi. 

In conclusione, sono contraria alla proposta di voto per i sedicenni non perché non li ritengo abbastanza maturi, poiché sarebbe come darmi dell’ingenua, ma perché non porterebbe a nessun cambiamento significativo. 

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Recensione Libri

Tutte le volte che ho scritto ti amo

14 febbraio. San Valentino. Il giorno degli innamorati.

Eccoci qui. Anche dopo quest’anno molto turbolento, in cui i rapporti sono stati messi a dura prova dalla distanza e molte coppie sono state divise durante i mesi di quarantena, San Valentino è arrivato, come sempre, a ricordarci che l’amore è importante e che dovremmo coltivarlo ogni giorno.

Sfortunatamente, visto che la Toscana è diventata oggi zona arancione, non siamo potuti uscire per fare dei “pranzetti romantici”. Comunque si può trascorrere San Valentino in molti altri modi. Io, non essendo per ora fidanzata, l’ho trascorso guardandomi un bel film d’amore, il genere che piace a me. Sì, perché io sono un’inguaribile romantica. Per questo oggi, festa degli innamorati, voglio consigliare alle ragazze della mia età o alle donne che si sentono ancora delle teenager oppure, per non fare nessun tipo di discriminazione, ai ragazzi a cui piacciono le storie romantiche, una saga di tre libri d’amore da cui Netflix ha tratto gli omonimi film. Sto parlando, e le mie coetanee li conosceranno sicuramente, dei libri Tutte le volte che ho scritto ti amo e dei seguiti P.S. Ti amo ancora e Tua per sempre, Lara Jean di Jenny Han.

Jenny Han è una scrittrice di origini coreane che ha creato questa storia d’amore (meravigliosa) tra Lara Jean Covey e Peter Kavinsky. Lara Jean è una ragazza timida e che non sopporta i cambiamenti, infatti le piace organizzare la sua vita e avere tutto sotto controllo; per questo motivo detesta quando perde la testa per qualche ragazzo e così decide di scrivere i suoi sentimenti in delle lettere che poi custodisce in una scatola. Le lettere d’amore sono cinque: una per ogni ragazzo di cui si è innamorata. Un giorno scopre che qualcuno ha spedito tutte le sue lettere e quel che è peggio, che sono state ricevute. Ecco che qui la sua vita diventa molto complicata ma anche molto, molto più interessante…

La domanda che ci si pone leggendo questo libro è: quando il cuore e la testa dicono cose diverse, chi si dovrebbe seguire?

Per me bisogna ascoltare sempre il proprio cuore, perché il cuore non pensa come la testa a mille preoccupazioni, ai “e se…”. Il cuore è sentimenti e i sentimenti sono naturali, spontanei e quindi veri. Non possiamo decidere di essere tristi o di essere felici: possiamo nasconderlo agli altri, ma non possiamo mentire a noi stessi. Quando il cuore ti dice di fare qualcosa è perché sente che quella cosa ti farà stare bene, ti renderà felice. Per questo bisogna seguire il cuore: per essere felici. Però per essere felici per forza poi dovremo essere tristi, perché tutto ha una fine. Di questo ha paura Lara Jean: di innamorarsi e poi farsi spezzare il cuore. Lei non vuole soffrire. In questo viaggio capirà che per amare davvero occorre rischiare: dobbiamo rischiare nella vita come in amore, perché è peggio un rimpianto di mille rimorsi.

Da questi libri sono stati tratti i tre omonimi film con protagonisti Lana Condor e Noah Centineo, che si possono vedere sulla piattaforma Netflix. L’ultimo è uscito da pochi giorni e, ovviamente, io l’ho già visto. Li amo pazzamente tutti e tre; uno più bello dell’altro, sia i libri che i film (soprattutto per l’attore Noah che è super cute). Quindi se state cercando una bella storia d’amore adolescenziale, quella di Lara Jean è perfetta.  

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Recensione Libri

Io sono Malala

Oggi 25 novembre, in onore della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ho deciso di parlare di uno dei libri più belli che abbia mai letto; si tratta dell’autobiografia di una ragazza straordinaria, che ogni giorno lotta contro la disuguaglianza di genere e contro la violenza sulle donne con l’arma più potente: l’istruzione. Lei è Malala Yousafzai, il premio Nobel per la Pace che si batte per il diritto di andare a scuola delle bambine e dei bambini di tutto il mondo.

Il mio mondo è cambiato, ma io no”. Questa è la frase con cui si conclude questa storia, una di quelle che sembrano tratte da un romanzo. Dopo quell’episodio, dopo che quella pallottola l’ha colpita alla testa, lei è ancora viva ed è conosciuta al mondo come “la ragazza a cui hanno sparato alla testa”. Però a lei non piace molto; preferirebbe “la ragazza che lotta per l’istruzione delle bambine”. Anch’io credo che le si addica di più, anche se l’ho conosciuta con la prima denominazione. Perché lei è Malala, una bambina dello Swat, nata in una famiglia amorevole e molto all’avanguardia a differenza del suo Paese, il Pakistan. Infatti suo padre è un uomo che non l’ha mai costretta ad ubbidirgli e le ha sempre dato la possibilità di avere un’istruzione. Anzi, è meglio dire che lei ci è nata a scuola: infatti suo padre ha sempre sognato di aprire una scuola aperta a tutti, bambini e bambine, anche per coloro che non potevano permetterselo. E quando è nata Malala il suo sogno si è realizzato, riuscendo a fondare la Kushal School.
Il libro è diviso in tre parti: prima dei talebani, durante e dopo. I talebani sono un gruppo di fondamentalisti islamici che aveva lo scopo di “convertire” tutta la popolazione del Pakistan a seguire i “veri” principi islamici. Ho messo due parole tra virgolette perché si fa per dire. Convertire è uguale ad obbligare con la forza e il terrorismo. Veri perché Malala ci racconta che tutto ciò che i talebani dicono non è la vera religione islamica. Infatti tutti quei pregiudizi sull’Islam, che incita all’oppressione delle donne, non è veramente ciò che il Corano, che Malala ha studiato, insegna. Ma a noi, i fatti di cronaca che ci arrivano sui talebani, ci fanno pensare veramente che l’Islam sia sopraffazione sulle donne.
Il racconto inizia da quando suo padre era piccolo. Lei ama suo padre, è il suo punto di riferimento, perché condividono la passione per la scuola. Ci racconta della sua infanzia, del suo popolo, i pashtun, e della sua meravigliosa valle, che sembra uscita da una cartolina. Finché tutto il suo mondo viene sconvolto dall’arrivo dei talebani. Loro vedevano le donne come delle bamboline da controllare, a cui dire cosa fare o cosa non fare, come vestirsi. Iniziarono a far chiudere e bombardare le scuole femminili. Malala non voleva abbandonare la scuola, per lei era tutto il suo mondo: pensava che se Dio avesse voluto noi donne così sottomesse, non ci avrebbe fatto invece tanto diverse. Capì che doveva alzare la voce, perché era l’unica che poteva gridare al mondo che voleva andare a scuola, grazie al supporto che riceveva da tutta la sua famiglia. Decise che avrebbe parlato a nome di tutte le ragazze desiderose di ricevere un’istruzione, ma che non potevano a causa dei loro padri o fratelli. La sua fama aumentava: iniziò ad essere conosciuta anche fuori dal Pakistan. Però l’oppressione dei talebani incrementava sempre di più, e accresceva anche il pericolo che correva ogni volta che faceva un’intervista. I talebani ne avevano paura perché il potere di una donna è il più potente. Lo aveva detto pure il padre fondatore del Pakistan, Mohammad Ali Jinnah: “Nessuna lotta può concludersi vittoriosamente se le donne non vi partecipano al fianco degli uomini. Al mondo ci sono due poteri: quello della spada e quello della penna. Ma in realtà ce n’è anche un terzo, più forte di entrambi, ed è quello delle donne.”
Noi donne abbiamo un grande potere e questo gli uomini lo sanno, per questo motivo hanno paura e la paura spinge ad andare oltre l’immaginabile. Malala non aveva paura di morire, perché sapeva che i talebani non si sarebbero spinti ad uccidere una bambina. Infatti tutto il mondo era sbalordito e sconcertato dall’episodio del 9 ottobre 2012. Un talebano spara tre pallottole sull’autobus della scuola dove Malala stava viaggiando per tornare a casa. Da qui inizia un viaggio per la sopravvivenza che la porterà fino in Inghilterra, dove verrà curata con le più avanzate ed efficienti cure possibili.
Malala è sopravvissuta perché Dio aveva un altro piano in serbo per lei. Lei doveva realizzare il suo sogno più grande: “Sedermi a scuola a leggere libri è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio”. E’ così che ha creato il Malala Fund, un’associazione internazionale che sostiene l’istruzione delle ragazze ed è diventata la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace.

La sua storia mi ha segnato l’anima. Una storia travolgente, bellissima quanto disumana. Forse il lieto fine più bello che abbia mai letto.

Malala aveva paura. Quando chiese a suo padre se l’avesse pure lui, le rispose: “Di notte la paura è forte, Jani, ma al mattino, con la luce, si ritrova il coraggio”. Come Malala ha trovato il coraggio di alzare la propria voce, anche noi, donne vittime di violenze, dobbiamo farci sentire e urlare al mondo intero: “Io sono una vittima!”

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La mia vita

L’estate è libertà

“Prima che il vento ci porti via tutto e che settembre ci regali una strana felicità, pensando ai cieli infuocati e ai brevi amori infiniti, respira questa libertà. L’estate è la libertà.” Jovanotti.

Questa strofa è tratta da una delle mie canzoni preferite di Jovanotti: “L’estate addosso”. Ho scelto questa canzone perché rappresenta a pieno questa mia estate che è giunta al termine. Nonostante le restrizioni e le regole anti-covid, quest’estate per me è stata pura libertà. E vi dirò di più, ma prima è necessario che spieghi che significa per me libertà. Quando penso a questa parola, il mio primo pensiero va’ all’immagine di un’aquila che vola nel cielo tranquilla, senza preoccuparsi del vento, sicura che lo potrà controllare grazie alle sue possenti ali. Per me libertà è questo. Avere la mente libera da preoccupazioni, problemi, da “e se…”. Quest’estate la mia mente è stata libera da tutto ciò. Avendo finito la terza media, dopo l’esame, non avevo da fare niente. Nessun compito, nessuna preoccupazione di arrivare a settembre con ancora metà del lavoro da svolgere. La cosa più bella che non mi è mancata? Dire ogni giorno la frase: “Oddio, domani devo fare i compiti”. No. Nulla di tutto ciò. Dovevo solo pensare a cosa mettere in valigia. E, di valigie, ne ho fatte tante. Non sono stata ferma un attimo. Dal mare alla montagna, ho girato tanto quest’estate. Ho vissuto migliaia di esperienze bellissime e ho visto luoghi meravigliosi. Tutto accompagnato dalle hit di quest’anno, perché in estate la musica per ballare non manca mai. La mia preferita di quest’anno è “A un passo dalla luna”. In questi ultimi mesi mi sono sentita proprio così: avevo la sensazione di poter toccare il cielo da quanto mi sentivo leggera. Secondo me siamo “grassi” di problemi e stress. Dovremmo tutti rilassarci e non preoccuparci. A volte fa bene non pensare alle conseguenze. Ho visto un film su Netflix che mi ha ispirata: si chiama “La lista dei fanculo”. E’ un bellissimo film dove questo ragazzo, prima di andare all’Università, decide di lasciarsi andare e fa tutto ciò che avrebbe voluto fare. Io ho vissuto così quest’estate. Ed è stato fantastico. Ho raggiunto le vette più alte delle Dolomiti; ho navigato con i delfini nelle bellissime acque dell’Isola d’Elba; ho preso un aereo e sono volata fino in Grecia, uno dei miei paesi preferiti al mondo. Ho fatto tutto ciò che mi avrebbe fatto sentire bene e mi avrebbe fatta ridere. E ho fermato tutti questi bei momenti in delle fotografie, il modo più bello per ricordare nel tempo tutte queste avventure. Qui sotto ho pubblicato una foto per ogni mio viaggio.

Anche se la scuola è ricominciata, e ne sono felice, non lascerò che la mia libertà venga oppressa da tutti gli impegni, i compiti e dallo stress che ricomincerà a sfinirmi. Voglio rimanere libera e per farlo combatterò contro tutti i problemi con la mia migliore arma: il sorriso. Perché ridere aumenta la vita e la rende molto più bella.  

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I miei Viaggi

Viaggio all’Isola d’Elba e Capraia

Finalmente si parte. E’ da tanto che aspetto con trepidazione questo giorno. Esame finito: l’ansia è scomparsa e al suo posto sono arrivati serenità e divertimento. Oggi segna l’inizio delle mie vacanze. Se non ci fosse stato il Covid, a quest’ora sarei su un aereo per l’Inghilterra, ma il destino ha deciso per me che quest’anno non era il momento giusto. Eccomi così in barca a vela con mio fratello Pippo, il mio babbo e dei nostri amici. E’ incredibile quanto aspetti entusiasta che arrivi un giorno e poi ti sembra impossibile che sia già arrivato. Ma a risvegliarmi dai sogni e a dimostrazione del fatto che è tutto vero ci sono le onde del mare che sbattono contro la barca e il vento che mi spettina i capelli. Oggi si parte per un viaggio alla scoperta delle meravigliose isole d’Elba e Capraia. Questa non è la mia prima esperienza in barca a vela: è ormai da qualche anno che andiamo all’Isola d’Elba. Nonostante questo sono felicissima come la prima volta di tornare a navigare col vento, perché ci sono tanti aspetti della vita marina che mi piacciono. Primo fra tutti è lo stare scalzi: bandite scarpe o ciabatte. I miei piedi potranno godersi un po’ di libertà. Secondo motivo stai tutto il giorno in costume. Terzo e credo anche ultimo motivo, non devi farti la doccia perché stai costantemente nell’acqua. Quest’estate sono libera da ogni obbligo perché ho finito la terza media e non ho nessun compito da svolgere. Devo solo rilassarmi e ricaricare le energie per il prossimo, impegnativo, viaggio: le superiori. Dopo mesi di quarantena è finalmente giunta la mia estate di libertà e passerò tutti i giorni a non preoccuparmi di niente eccetto divertirmi.

Allora eccomi qui, sotto il sole, con un quintale di crema solare spalmata sulla pelle, che ascolto la barca che sbatte contro le onde, mentre, guidata dal nostro skipper Massimo, ci porta all’Isola d’Elba. Ci starebbe bene in sottofondo la canzone Buon viaggio, di Cesare Cremonini. “L’incanto sarà godersi un po’ la strada… Buon viaggio… Non è importante dove, conta solamente andare…”. Questa è pura verità. E’ così che mi godo il viaggio: usando i miei cinque sensi e ascoltando tutto ciò che fa parte del tragitto. Il rumore del motore diminuisce. Trr trrrr trr. La manopola gira per innalzare la vela. Il vento si impossessa di essa e spinge la barca con tutta la sua forza e la sua eleganza. Lo skipper spegne il motore del tutto. La barca si piega. Il vento soffia sempre più forte e imponente: ormai è lui il capitano della barca. Di una piccola barca, piccolissima in confronto al grande oceano su cui naviga. Mi ha sempre impressionato la grandezza del mare. Non si riesce mai a vedere cosa c’è oltre l’orizzonte. Il punto dove il cielo e il mare si incontrano. Il punto dove ogni sera il sole ci saluta per far spazio alla notte e dove ogni mattina riappare con un po’ di speranza per un giorno migliore. A proposito di quando se ne va: il tramonto è il momento più bello di tutta la giornata. I colori si sfumano dal giallo del sole al nero della notte senza luna. C’è una bellissima frase che mi piace tanto: “Vivere è guardare il tramonto con gli occhi di un bambino, cercando ogni volta un colore nuovo”. Significa che vivere è usare gli occhi riempiendoli d’immaginazione. Il tramonto è il momento che preferisco perché, oltre a dare al cielo un aspetto mozzafiato, mi dona idee, pensieri… E’ il mio momento perfetto per scrivere; mi dona tanta ispirazione.

Una ragazza è stesa a prua ad osservare il panorama che la Natura le dona ogni giorno al tramonto. Sempre diverso e sempre bellissimo. Osserva la terra ferma, ricoperta da tanto verde che purifica l’aria inquinata dandole nuova vita. Il cielo è di un celeste scuro che tra pochi minuti diventerà di un blu intenso e buio come il mare sotto di esso. Lo sguardo della ragazza vola in lontananza, dietro l’isola, dove il sole sta per calare e portare via con sé la luce che ha illuminato quello splendido giorno. Deve sbrigarsi se vuole finire di scrivere il suo diario, perché la luce sta scomparendo sempre più veloce. Il silenzio è occupato dal vento che soffia forte e imponente. I capelli della ragazza svolazzano, come la sua camicia e i teli stesi ad asciugare, che andranno poi tolti per non rischiare che volino via. In sottofondo, sovrastata dal vento, si sente la voce angelica di una mamma che canta la ninna nanna per il suo bambino. Il buio sta invadendo tutto. Quando i piatti saranno lavati e al loro posto, le luci si spegneranno e gli occhi si chiuderanno. È in quel momento che i sogni invaderanno l’aria e la ragazza potrà dormire beatamente fino al sorgere del sole, che porterà con sé nuovi amori, nuove avventure e nuove emozioni. Fino ad allora, la barca dondolerà nell’oceano come una grande culla, mentre, nel buio più totale, le stelle saranno protagoniste della notte”. 

Sei del mattino. È la prima volta in tutta la mia vita che mi sveglio così presto di mia volontà. Sono una dormigliona ma stamattina c’era qualcosa che mi attirava. Non so, credo i garriti dei gabbiani. In campagna c’è il gallo, al mare ci sono i gabbiani. Esco dalla cabina in punta di piedi per non svegliare nessuno. Fuori l’aria è frizzantina e tira un vento freddo che mi dà i brividi. I miei denti non riescono a non battere per il freddo. Nonostante ciò rimango seduta a osservare l’alba. È bellissima. Non l’avevo mai vista prima d’ora. L’acqua non è fredda come pensavo. Quasi quasi mi tuffo. Prendo il mio libro e leggo. Non c’è cosa più piacevole che leggere in questo paradiso. O forse sì. Ascoltare musica. Lasciare che le note mi entrino nell’anima e compongano insieme a quel paesaggio una perfetta armonia. La musica riesce a sovrastare tutti i miei pensieri, aiutandomi a godermi quell’atmosfera magica.

Tre del pomeriggio. Fa caldo. Tanto caldo. Troppo caldo. Per fortuna basta che mi tuffo e l’acqua fresca mi restituirà l’energia che questo caldo mi sta sciogliendo. Mi metto ad asciugare sotto il sole e provo a farmi venire qualche idea. Mi torna facile scrivere quando sono sola. Devo essere io e il mondo. Nessun altro deve interferire con il nostro rapporto. Nessuno potrà mai sapere come i miei occhi guardano la vita. Attraverso le mie parole potreste farvi un’idea, ma io racconto solo un pezzo dell’intero puzzle. Comunque la mia mente ormai ha preso il via. Non posso più fermarmi. A volte penso così veloce che la mia mano non riesce a starmi dietro e salta delle parole, così devo rallentare. Ma non posso rallentare. Mi piace la velocità, quando sale l’adrenalina e ti senti libero da tutti i divieti e le regole.

La ragazza è sdraiata su una tavola che galleggia in una mare cristallino. Con la mano accarezza dolcemente l’acqua salata e fredda. Ridà vitalità e freschezza a tutto il corpo, mentre il sole penetra la sua pelle, riscaldandole anima e corpo. Il vento soffia leggero. Accarezza delicatamente i suoi capelli e soffia via i pensieri che rovinano la tranquillità e la serenità di quel momento. La mente non viaggia; per una volta è ferma in un luogo. Dove dovrebbe andare se tutto quello che cerca è li accanto a lei? Il corpo, abbandonato sulla tavola, si fida del mare e si lascia trasportare dalle onde. Vietati i pensieri negativi in un posto così bello. Il cielo senza nuvole rispecchia la mente libera della ragazza.

Notte. Stasera dormiamo in rada a Viticcio. La luna non è qui con noi. Non sono triste però, perché le stelle non sono mai state così belle. Un giorno qualcuno mi ha detto che non si può dire di aver visto le stelle finché non le si guarda dal mare aperto. Aveva ragione. Mai viste così lucenti e così tante. Peccato che molti le guardino con in mano un cellulare per vedere, attraverso un’applicazione, le costellazioni e sapere che stelle sono. Da una parte imparo l’astronomia, dall’altra non mi godo l’istante a pieno. E io preferisco sentire l’emozione di vedere quella stella che brilla più di tutte le altre, invece che sapere che quella stella è Giove. Perché di giorno non le potrò vedere e riconoscere, invece se le guardo con gl’occhi e coll’anima, quando il sole le nasconderà dietro la sua luce potente, io mi ricorderò della sensazione che ho provato nel guardarle distesa sotto di esse, così lontana da loro, e aspetterò col cuore gioioso la notte per riprovare quella splendida sensazione.

Ci aspettano tre ore di navigazione per arrivare al porto di Capraia. A farci compagnia arrivano i delfini. Un intero branco voglioso di giocare con noi. Battiamo contro la nave così che vengano più vicini a noi. Due delfini più giocherelloni arrivano a prua e nuotano davanti ai nostri occhi. Animali più belli e divertenti di questi non esistono. È così che, felici di aver incontrato i delfini, arriviamo al piccolo porto di Capraia, dove passeremo la notte. Non ho mai visto un’acqua così pulita in un porto. Scendiamo a terra e col pulmino andiamo al castello. Su un promontorio ci soffermiamo a fare foto e ad ammirare la spettacolare vista che si affaccia sul mare, blu limpido e luccicante grazie ai raggi del sole che si riflettono sull’acqua. Capraia è una cittadina davvero carina con case rosa salmone, giallo limone e bianche e coi fiori che decorano le stradine. Per non farci mancare niente, nemmeno in barca, dal punto di vista culinario, ecco che prepariamo la pizzaaa! Gnam!

È giunto il momento di tornare a casa. Dopo bagni, tanto tanto sole, scarse probabilità di successo nella pesca, ma soprattutto tante risate, anche questa vacanza è giunta al termine. Siamo arrivati al porto di San Vincenzo. Sono un po’ triste che sia finita e che il tempo sia volato, ma dall’altra parte sono felice di tornare alla mia casa dolce casa. Perché, come sempre, dovunque andrò, sarò sempre felice di tornare a casa.

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I miei racconti fantasy

Un colpo al cuore

Il detective James Jondhall e sua moglie Catherine erano andati in vacanza all’hotel in montagna “The Top of Mountains”. Pensavano di trascorrere una vacanza tranquilla e rilassante, invece ad attenderli trovarono un omicidio che aspettava solo di essere risolto…

La luce era spenta. Eravamo a letto nella stanza numero 324 dell’hotel “The Top of Mountains”. I miei occhi erano socchiusi. Sentii un urlo e poi… Strch! Una finestra che si rompe. Mio marito si alzò di scatto, aprì la porta e corse nella stanza accanto. E’ da lì che era provenuto il rumore. Mi misi la vestaglia e lo raggiunsi. Che scena orribile!

Su una poltrona era seduto un anziano signore che teneva tra le mani un coltello. Gli occhi erano chiusi e la bocca spalancata. Il corpo era floscio, penzolante. Senza vita. Stava ancora perdendo sangue. Aveva una ferita profonda. Il colpevole non aveva avuto pietà. Una coltellata al cuore.

Chiamata la polizia, mio marito decise che avrebbe iniziato a investigare il giorno seguente perché era troppo stanco e come dice lui “la stanchezza nasconde le prove”.

Dopo colazione andammo sulla scena del crimine. La stanza era in ordine, non c’era niente fuori posto. Soltanto il libro che stava leggendo l’uomo prima che venisse ucciso. Mentre mio marito cercava di capire come il colpevole fosse riuscito a scappare dalla finestra, io cercai indizi. Era difficile capire cosa fosse accaduto, perché era tutto in ordine, non c’erano tracce. Ma prima che perdessi la speranza vidi qualcosa che luccicava opacamente. In bagno, allo spigolo della porta, c’era una forcina di colore oro arrugginito.

 A pranzo facemmo il punto della situazione. James mi domandò: “Allora, Katy, hai trovato qualcosa?”

“Si. Una prova. In bagno al colpevole è caduta una forcina color oro. E’ un po’ arrugginita, potrebbe averla usata per scassinare la porta”. Lui stava riflettendo. Adoro quando riflette. I suoi occhi azzurri come l’oceano sembrano guardare un punto a vuoto, ma invece stanno cercando nella mente prove, indizi, ricostruendo il caso.

“James, e invece tu, scoperto niente?”. Lui mi guardò e poi rispose: “Si. Ho scoperto come ha fatto il colpevole a lanciarsi dalla finestra e a scappare. Sotto la finestra c’era un salterello coperto dalla neve. Possiamo dedurre che il nostro colpevole sia un acrobata visto che i comuni mortali non riescono a saltare da dieci metri e atterrare su un salterello. Deve essere un esperto”.

Passammo tutto il pomeriggio a fare domande al personale e agli ospiti dell’albergo.

Una giovane donna, che avrà avuto all’incirca trent’anni, si avvicinò a noi piangendo e piagnucolando riuscì a dire: “Buongiorno, lei dev’essere il dective Jonhdall. Io sono la figlia del signor Greendelval, l’uomo che è stato ucciso la scorsa notte. Oh non sa quanto sono felice di conoscerla! Sono scioccata da quando mi hanno riferito della morte e spero che lei potrà risolvere il caso, detective, almeno potrò stare tranquilla quando l’assassino di mio padre sarà in carcere”. James le spiegò:

“Signorina Greendelval, per ora non abbiamo molte prove che ci aiutino. Se mi permette le vorrei fare qualche domanda”. Lei annuì e così iniziammo l’interrogatorio. “Lei sa se suo padre aveva qualche nemico, che centrasse su qualcosa che aveva fatto in passato?”. Lei negò. Mi sembrava un po’ persa quando le chiedevamo di parlarci di suo padre. Non conosceva molto di lui.

Insistetti chiedendole: “Signorina, lei ha una sua idea di chi potesse essere l’assassino?”. Lei ammise a malincuore: “Una mia idea ce l’ho. Non mi giudicate però. Io penso che si sia stata mia sorella minore. Vede, detective, la nostra infanzia non fu molto idilliaca. Nostra madre morì quando noi eravamo piccole e nostro padre iniziò a ubriacarsi per far passare il dolore della perdita. Ma l’alcol gli fece perdere anche la ragione: iniziò a picchiarci e a scatenare tutta la sua ira su di noi. E mia sorella non ce la faceva più a sopportarlo. Io cercavo di tranquillizzarla e di farle notare che dopotutto era nostro padre. Ma lei non ce la faceva. Poi i rapporti col tempo continuarono a peggiorare. Penso lei lo abbia fatto per rivendicare l’infanzia molto turbolenta”.

La sera, dopo cena, mi sedetti su una poltrona della hall per rilassarmi. Mi si avvicinò una signora molto anziana. Camminava con un bastone di legno ben lavorato. Dava l’aria di essere molto saggia per i suoi occhiali che posavano sulla punta del naso. Si sedette nella poltrona accanto alla mia e iniziò a borbottare che l’omicidio stava portando male voci sul suo albergo. Io la interruppì chiedendole:

“Signora, lei è la proprietaria di questo hotel?”. “Si, mia cara giovanotta. L’ho ereditato da mio padre”. Io volli argomentare: “Il signor Greendelval, l’anziano che è stato ucciso, era un cliente ordinario?”. Lei annuì lentamente e aggiunse: “Dal 1920 che viene nel nostro hotel, ogni vacanza estiva e natalizia. La prima volta che venne qua da noi, io avevo 20 anni, lui 23. Mi presi una cotta per lui. Era un uomo bello, alto, molto muscoloso. Era molto molto attraente. L’anno seguente, però, tornò con una donna incinta. Si era sposato prima che io potessi rivelargli il mio amore. Si vede che il mio destino non era quello di stare insieme a lui”. Io insistetti, volevo saperne di più. “Ha mai notato qualcosa di strano in questi anni?”. Lei confessò: “Deve sapere che il signor Greendelval era molto violento. L’ho visto picchiare sua figlia maggiore. Povere quelle due ragazze. La loro madre fu uccisa quando loro erano molto piccole. Non hanno avuto un’infanzia tranquilla. Io penso anche che sia stato il signor Greendelval ad uccidere la moglie, perché era geloso”.

La mattina seguente, mio marito mi disse di aver chiamato il fidanzato della sorella minore della signorina Greendelval, e di aver scoperto che lei era partita il giorno prima dell’omicidio da Parigi, dicendo che voleva chiarirsi col padre.

Mentre James continuava a investigare, io andai a sciare per rilassarmi un po’ visto che dopotutto ero in vacanza. Sulle piste incontrai la signorina Greendelval che, con lo snoboard, stava provando delle acrobazie. Mamma mia, che salti! La chiamai per chiederle se voleva prendersi una cioccolata calda con me e lei accettò volentieri. “Allora, signorina…”, “mi chiami Jasmine” mi interuppe. “Allora Jasmine, ho visto che sei molto brava con lo snowboard”. “La ringrazio. Sono un acrobata sulla neve”. Mentre si toglieva il casco notai che tra i capelli aveva qualcosa di luccicante…

Quando tornai all’albergo, chiamai mio marito che, prima che potessi aprire bocca, mi annunciò che era arrivata la sorella minore di Jasmine e che aveva capito chi era il colpevole. Io gli precisai che era proprio per quello che ero andata da lui. Avevo capito anch’io chi era il colpevole. Chiamate le due sorelle e l’ispettore della polizia, ci dirigemmo nella stanza del crimine.

Iniziò a parlare mio marito: “Vi abbiamo convocato qui stasera, perché abbiamo scoperto chi è l’assassino del signor Greendelval. Devo ammettere che è stato molto bravo a mantenere l’ordine, infatti è stato difficile trovare delle prove. L’unica cosa che non aveva pianificato è che il signor Greendelval lo stava aspettando”. James mi mandò un’occhiata e continuai io la spiegazione: ”In bagno ho trovato una forcina color oro che si era arrugginita. L’assassino deve averla usata per scassare la porta. Quando però è entrato e si è avvicinato all’anziano che si fingeva addormentato, si è spaventato quando l’uomo si è svegliato e la forcina gli è caduta. Dalla paura, tirò un urlo, molto acuto, tipico delle ragazze. Senza pensarci due volte, pugnalò l’anziano signore, e scappò, buttandosi dalla finestra e spaccando il vetro”. Mio marito concluse: “Noi abbiamo trovato un salterello sotto alla finestra e abbiamo pensato che l’assassino dovesse essere un bravo acrobata. Così, siamo giunti alla conclusione che il colpevole, colui che ha ucciso il signor Greendelval, è sua figlia Jasmine!”.

Lei, sbalordita, replicò: “Ma non avete prove contro di me!”. “Mia cara signorina, in questo si sbaglia. La mia acutissima moglie mi ha riferito che lei è una splendida acrobata con lo snoboard e in più, ha notato che lei indossava delle forcine identiche a quella che abbiamo trovato. Quindi non c’è dubbio, è lei il colpevole”.

Jasmine protestò: “E sentiamo, detective, perché lo avrei dovuto fare?”.

“Mi sembra molto ovvio, signorina. Ma se ancora non l’ha capito, glielo spiego. Sempre per merito di mia moglie, siamo venuti a conoscenza della morte di vostra madre. Ma non una morte accidentale, bensì pianificata. Siamo andati a ricercare nei vecchi archivi e abbiamo scoperto che a uccidere vostra madre è stato il signor Greendelval. Voi, ovviamente, lo sapevate, ma non potevate dire niente perché sennò vi avrebbe picchiate. Ed è così che lei ha voluto rivendicare la morte di sua madre e l’infanzia infelice che ha dovuto passare”.

Jasmine venne portata via dall’ispettore di polizia e noi, finalmente, potemmo tornare alla nostra vacanza che stava per concludersi.