Ogni estate andavo in vacanza in montagna dai miei zii. La loro casa era enorme: comprendeva un vasto territorio coperto da fitti alberi che non lasciavano passare nemmeno uno spiraglio di luce. La struttura era fatta in mattoni e all’interno la casa era allestita con mobili moderni e il tutto era grazioso e accogliente.
La sera mi piaceva arrampicarmi su un albero a osservare il tramonto. Era bellissimo vedere come piano piano il sole si ritraeva e la valle diventava buia e silenziosa, terreno di caccia per i lupi. Prima che il sole scomparisse del tutto, mi affrettavo sempre a tornare a casa, perché non potevo girare per i boschi con il buio; avrei rischiato di perdermi. Una sera, però, c’era qualcosa che mi trattenne. Il paesaggio era sempre il solito, lo stesso paesaggio che osservavo tutte le sere, ma tirava un’aria diversa, nuova. Pensai: “Sarà perché oggi è il sostizio d’estate che l’aria ha un qualcosa di magico”, ma non lo avrei mai scoperto con certezza. L’unica cosa che soltanto ora so, è che quella sera fu l’ultima sera che vidi il tramonto. Fatto sta, che quando partii per tornare a casa, era buio pesto e mi persi. Camminavo alla ceca, alzando i piedi per non inciampare. Intorno a me c’era un silenzio agghiacciante, mosso solo dal frastagliare delle foglie e dal bubolare dei gufi. “Strhshhshh”. “Uh uh”. Ero nel panico, non sapevo cosa fare e soprattutto dove andare. Avevo paura.
Ad un tratto sentii un ramoscello spezzarsi dietro di me e il ringhiare di un lupo. Non ci misi molto a reagire. Iniziai a correre senza una meta. Non vedevo niente e due o tre volte quasi inciampai. Sentivo il fiatone del lupo alle mie spalle e corsi, corsi, come mai avevo fatto prima. Sbattei più volte la testa contro i rami più bassi, ma non mi fermai. Corsi più veloce che potei finchè non vidi la luna. Era grande e illuminava con una fioca luce la valle. Ero arrivato al limatare del bosco ma… da lì non potevo andare da nessuna parte. Davanti a me c’era un precipizio. Mi voltai di scatto e vidi tre lupi avvicinarsi lentamente, con la saliva che gli colava dalla bocca, come fossero deliziati della buona cena che avrebbero fatto. La mia fortuna mi aveva dato anche la scelta: da una parte una morte veloce, dall’altra una morte lenta, dolorosa, a cui avrei assistito. Senza pensarci due volte, mi buttai giù per il precipizio. Sentivo il vento fischiarmi dentro le orecchie. Andavo giù alla velocità di un missile. Mentre precipitavo pensavo a com’era la vita dopo la morte e a quanto mi avrebbe fatto male lo schianto. Persi conoscenza…
Non mi ricordo cosa mi successe. Sentivo delle voci, il calore del fuoco. L’unica cosa del quale ero sicuro era che non mi schiantai al suolo, perché non avevo nessun dolore. Pian piano la vista mi tornò lucida. Mi trovavo in una grotta. Al centro era acceso un grande falò. Vidi degli uomini: erano vestiti come degli indiani. Indossavano degli stracci che li coprivano dalla vita al ginocchio. Sui pettorali e sui bicipiti avevano dei tatuaggi. Stavano ballando intorno al falò, quando un uomo diverso da loro mi si avvicinò. Non era un primitivo. Era abbastanza alto e snello. Indossava degli abiti malridotti degli anni ’80. Il suo viso era pieno di graffi e cicatrici. Sul collo notai il segno tangibile di una corda. I suoi occhi erano gonfi e pieni di dolore e tristezza. Mi osservò, poi guardò il suo braccio e mi disse con una voce bassa e malinconica:
“Mi dispiace tanto. Sei il prescelto. Io non lo voglio fare, ma… qui, i capi sono loro” e col mento mi fece cenno agli uomini intorno al falò. Mi prese con forza per il braccio e mi portò vicino al fuoco. Gli indiani iniziarono a cantare una melodia simile a quella che si sente ai funerali, caratterizzata dai battiti di un tamburo. Mentre gli uomini ballavano una danza etnica, l’uomo mi spinse dentro il falò e mi seguì. Per mia grande sorpresa non presi fuoco. Ma era meglio se succedeva. Mi prese il braccio e lo appoggiò dove aveva un tatuaggio strano: un uomo di colore bianco. Iniziò a pronunciare parole senza senso, ma compresi che mi stava facendo un sortilegio. Il braccio mi inziò a bruciare e sentii come un ago che mi incideva la pelle, mentre l’uomo diceva:
“Ecco a te la mia preda,
ora lascia la mia anima in pena,
prendi la sua e dammi tregua.”
Sentii ancora più dolore finchè l’uomo non andò in fiamme e le sue ceneri volarono via. Sul mio braccio era inciso il tatuaggio dell’uomo, l’unica differenza era che il mio, invece di essere bianco, era nero.
Gli indiani mi trattarono come un dio, ma quando mi portarono una preda da uccidere e io mi rifiutai, loro mi torturarono fino alla morte. Il problema era che ero immortale. Così, dovevo uccidere, massacrare contro il mio volere. Finchè mi portavano animali, ero abbastanza tranquillo, sereno; quando poi mi ordinarono di uccidere un umano, la mia anima era traumatizzata. Vedevo il viso di quegli uomini pieno di dolore e di paura, mentre io gli tiravo coltellate al cuore. Mi sentivo così male a uccidere uno della mia stessa specie. Ma dovevo farlo, sennò gli uomini torturavano me a vita eterna.
Col tempo ho capito che questa tortura avrebbe avuto una fine. Quando il mio tatuaggio sarebbe diventato bianco, avrei potuto mettere qualcun altro al mio posto. L’unica cosa che posso fare adesso è aspettare e uccidere per non essere torturato.